Detriti Spaziali: analisi del panorama normativo e di come viene affrontata la questione in sede internazionale.

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I detriti costituiscono il rischio maggiore e la principale fonte di inquinamento nello spazio.

Il problema dei detriti o della spazzatura spaziale, pur non essendo al centro del dibattito dell’opinione pubblica, rappresenta una questione di sempre più pressante attualità.

A tale proposito, i numeri sono più eloquenti di molti discorsi: attualmente, si ritiene che nello spazio cosmico vi siano circa 130 milioni di detriti da un millimetro sino ad un centimetro di diametro, 1 milione tra 1 e 10 centimetri di diametro e più di 36.500 superiori ai 10 centimetri di diametro, che viaggiano alla velocità di circa 28.000 chilometri orari, la maggior parte dei quali nella bassa orbita terrestre (sotto i 2.000 km.).

Nello Space Environment Report del 2023 dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), è stato evidenziato che l’ambiente orbitale terrestre è una risorsa finita; che sono stati lanciati più satelliti nel 2022 che in ogni altro anno precedente; che il numero e le dimensioni delle costellazioni di satelliti commerciali nelle, economicamente rilevanti, orbite terrestri inferiori, continua ad aumentare; che un numero insufficiente di satelliti lascia tali orbite congestionate alla conclusione del loro ciclo vitale e che quelli che vi rimangono al termine delle loro missioni sono a rischio di frammentazioni in pericolose “nuvole” di detriti, per evitare le quali, i satelliti attivi devono porre in essere manovre specifiche anti-collisione.

I detriti, definiti comunemente quali oggetti spaziali realizzati dall’uomo non funzionali, possono arrecare gravi danni sia ai satelliti che alle navette spaziali, oltre che agli stessi astronauti, come, ad esempio, avvenuto nel 1996, quando un detrito proveniente dal lanciatore Ariane 1, danneggiò il microsatellite militare francese Cerise.

Gli studiosi sono concordi nell’affermare che la frequenza di tali collisioni aumenterà esponenzialmente nel futuro, tanto che nella fascia orbitale inferiore della terra sarà estremamente difficile evitare simili eventualità; tale scenario è denominato “Sindrome di Kessler” (dal nome dell’astrofisico della NASA che ne è ideatore), secondo cui il volume di detriti spaziali sarà così elevato da determinare una elevata frequenza di collisioni, innescando una rischiosa reazione a catena.

Si stima che dal 1999 la International Space Station (la stazione spaziale orbitante che costituisce il più importante manufatto umano posizionato stabilmente nell’orbita terrestre, della lunghezza di quasi 100 metri per 80 di larghezza) ha dovuto attivare i suoi motori 32 volte, con costi rilevanti per ogni manovra, per evitare collisioni; come accaduto, ad esempio, nel 2021, allorché riuscì ad evitare l’impatto con alcuni detriti generati dalla disintegrazione del satellite russo Cosmos 1408, provocata dal test di un’arma anti-satellite portato a termine dalla Russia l’anno precedente (esperimenti che vengono effettuati, peraltro, anche da Stati Uniti, India e Cina).

I detriti, peraltro, non rappresentano solo un’evidente situazione di pericolo per persone e cose, ma costituiscono nel contempo un grave rischio ambientale ed un ostacolo al diritto di libero uso ed esplorazione dello spazio, oltre che un freno alle attività scientifiche e commerciali.

E’ stato riportato che entro il 2030, il numero di satelliti in orbita sarà passato dagli attuali 9.000 ad oltre 60.000.

Inoltre, il rischio derivante dai detriti riguarda anche gli oggetti caduti intenzionalmente nell’atmosfera e nel suolo terrestre, il cui numero è destinato a crescere con l’aumento delle attività private e statali nello spazio (si pensi, ad esempio, ai continui lanci della costellazione Starlink di Elon Musk).

Da qui la necessità, non potendo eliminare tale fenomeno, quanto meno di ridurre il conseguente rischio ambientale, non solo nello spazio, ma anche nelle aree marine, considerato che, per citare un caso emblematico, un’area dell’Oceano Pacifico denominata “Point Nemo”, posta a circa 2.600 chilometri di distanza da qualunque affioramento di terra in ogni direzione, viene utilizzata quale “cimitero spaziale” ove sono “sepolti” 260 velivoli spaziali tra i quali la stazione spaziale MIR, 140 capsule da rifornimento russe e molte altre dell’ESA (non vi sono, tuttavia, resti di satelliti, poiché essi, per le loro ridotte dimensioni, si disintegrano nell’atmosfera una volta fatti precipitare).

La questione dei detriti spaziali deve essere, quindi, affrontata in modo determinato e senza indugi, per evitare che si ripeta quanto già accaduto nell’ambiente dell’alto mare, dove la mancata governance ha portato alla pesca eccessiva, alla distruzione dell’habitat, all’inquinamento da plastica; fenomeni ai quali solo dopo decenni di intensi dibattiti e negoziati, si sta tentando di porre rimedio con la Risoluzione UNEA (United Nations Environment Assembly) del 2.3.2022 denominata “End Plastic Pollution” e lo storico accordo sulla conservazione ed uso sostenibile delle diversità biologiche marine del 4.3.2023 sotto l’egida ONU, in attuazione dell’impegno assunto l’anno prima alla XV Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità.

Per raggiungere l’obiettivo di eliminare la spazzatura nello spazio, ricoprono un ruolo chiave, sia la tecnologia, sia il diritto internazionale e domestico, con specifico riferimento alle misure di prevenzione di tali incidenti, nonché al regime sanzionatorio ed alle relative responsabilità; tuttavia, come accade frequentemente nel settore dello spazio, il quadro legislativo in materia o è troppo generico o è obsoleto, risalendo a diversi decenni orsono, quando la questione dei detriti spaziali non era certamente considerata una priorità.

Ad esempio, la normativa esistente, oltre ai numerosi dubbi interpretativi che la caratterizzano, non affronta le importanti questioni di natura ambientale e le relative conseguenze.

Il Trattato sullo Spazio ed i detriti spaziali

La norma di riferimento nell’Outer Space Treaty del 1967 è costituita dall’art. 9 che impone un generale obbligo di cooperazione e reciproca assistenza nello svolgimento delle attività spaziali e l’impegno ad evitare contaminazioni dannose ed avverse modifiche nell’ambiente terrestre, per effetto dell’introduzione di materiale extraterrestrial e, laddove necessario, di adottare misure appropriate.

Una prima lacuna della norma appare evidente, poiché essa prende in considerazione solo materiale “extraterrestre” e non creato dall’uomo, con la conseguenza che, secondo i fautori di una sua interpretazione letterale, gli Stati non assumerebbero le suddette obbligazioni nel caso di detriti spaziali.

La disposizione richiama espressamente due parametri di riferimento nella condotta degli Stati: in primo luogo, l’obbligo di condurre le loro attività con il “due regard” dei corrispondenti interessi degli altri Paesi, regola di condotta esistente anche nell’ambito del diritto del mare.

Si tratta di un principio diretto a bilanciare diritti concorrenti, che non stabilisce regole universali, ma che va applicato in concreto sulla base della natura dei diritti in questione, la loro importanza, l’estensione della loro lesione, la possibilità di soluzioni alternative e secondo un criterio di proporzionalità rispetto agli interessi coinvolti.

Nel caso dei detriti spaziali, appare evidente che il potenziale rischio provocato all’ambiente ed alle persone e cose, oltre che la lesione di uno dei più fondamentali diritti in materia dello spazio, vale a dire la libertà di uso ed esplorazione, impongono un più elevato “riguardo” dei diritti concorrenti.

In realtà, lo stesso principio, nel diritto del mare (art. 56 in materia di diritti, giurisdizione e doveri dello Stato costiero nella Zona Economica Esclusiva), ha una declinazione differente e più procedurale (risolvendosi, in sostanza, in un dovere di consultazione e cooperazione) rispetto alla portata più sostanziale della norma contenuta all’art. 9 del Trattato sullo Spazio, ove tale principio deve essere interpretato in connessione con l’altra regola contenuta nello stesso articolo: la regola del “no harm.

L’obbligo a carico degli Stati di non provocare danni ed adottare misure appropriate nella conduzione delle loro attività, corrisponde ad un analogo principio affermato dal diritto internazionale consuetudinario, vale a dire il divieto di provocare danni ambientali transfrontalieri, contenuto anche in strumenti normativi non vincolanti, quali la Dichiarazione di Stoccolma del 1972 e la Dichiarazione di Rio del 1992.

Sotto tale profilo, i detriti spaziali potrebbero essere considerati una forma di contaminazione dannosa, trattandosi di una alterazione dell’ambiente spaziale provocata dall’uomo, che interferisce con l’accesso allo spazio da parte degli altri Stati.

Con specifico riferimento alla questione dei detriti, l’art. 9, come accennato, si presta a diverse questioni interpretative. In primo luogo, l’articolo 9 del Trattato si riferisce alla esplorazione dello spazio esterno, ma non al suo uso, aspetto estremamente rilevante in materia di detriti spaziali; ed ancora, analoghi dubbi sorgono circa il fatto che “i detriti” rientrino o meno nella nozione di “contaminazione” e sui concetti di dannosità e di misure appropriate, contemplati dalla norma.

La dottrina più autorevole sostiene che la regola del “no harm” si riferisca non solo all’esplorazione dello spazio, ma anche al suo uso; vi sono, viceversa, argomenti contrastanti circa la determinazione della soglia di “harmful contamination” e sulla portata delle “appropriate measures” con riferimento ai detriti spaziali, che, pertanto, dovrà essere valutata caso per caso.

La Convenzione sulla Responsabilità.

Per affrontare le cruciali questioni in tema di responsabilità per i danni procurati ad un altro Stato, espressa in termini generali dall’art. 7 del Trattato sullo Spazio (che pone tale responsabilità a carico dello Stato dal cui territorio o struttura proviene il lancio dell’oggetto che ha cagionato il danno), è stata conclusa nell’ambito ONU una convenzione specificamente dedicata a tale tema (Convention on International Liability for Damage Caused by Space Objects).

L’Accordo, approvato dall’Assemblea Generale ONU il 29.11.1971 ed entrato in vigore nel Settembre 1972, distingue due ipotesi a seconda del luogo dove si è verificato il danno: sulla superficie terrestre (art. 2) o in qualsiasi altro luogo rispetto alla superficie della terra (art. 3).

Sono altresì previste ipotesi di multi responsabilità, in caso di dannosa interazione di oggetti spaziali da parte di due Stati di lancio ed il danno sia cagionato da un terzo Stato o persone fisiche o giuridiche che ne fanno parte (art. 4.1) o nel caso di più Stati che congiuntamente lancino un oggetto spaziale (art. 5.1).

Definizione di detriti spaziali

Prima di esaminare i due regimi di responsabilità, occorre verificare se nella definizione di “oggetti spaziali” contenuta all’art. 1 (che comprende i componenti di un oggetto spaziale, tanto del suo velivolo di lancio che parti di esso) rientrino anche i detriti.

La Convenzione, così come ogni altro accordo sullo spazio, non contiene una definizione di detriti, che è stata, tuttavia, successivamente fornita dalle Space Debris Mitigation Guidelines elaborate dall’UNCOPUOS, secondo cui i detriti sono tutti gli oggetti realizzati dall’uomo, non funzionali, inclusi i relativi frammenti, presenti nell’orbita della Terra o al rientro nell’atmosfera.

Gli studiosi si sono divisi sull’interpretazione dei detriti quali oggetti spaziali ricompresi nell’ambito di applicazione della Convenzione, tra chi adotta un approccio restrittivo, principalmente basato sul fatto che tale questione non venne presa in considerazione al tempo della Convenzione e, pertanto, fa rientrare in tale definizione solo i satelliti ed i suoi “component parts”, concetto meno inclusivo di “parte”; dall’altra, chi ritiene che la definizione dell’articolo 1 del Trattato non sia esaustiva da un punto di vista letterale e che, quindi, ai fini della Convenzione e del suo regime in materia di responsabilità, anche i detriti debbano essere considerati oggetti spaziali.

In generale, la definizione di oggetto spaziale condivisa dalla maggior parte degli studiosi, comprende non solo qualsiasi oggetto designato ad essere lanciato nello spazio, ma anche quelli relativi alla sola operazione di lancio.

A tale proposito, ci si è interrogati sul momento in cui la definizione di oggetto spaziale (ad esempio navette spaziali o satelliti) si sovrapponga al concetto di detrito, vale a dire quando l’oggetto cessi di svolgere la sua funzione o se esista (ed in quali termini), una differenza tra le due categorie.

Come accennato, un primo approccio si focalizza sugli aspetti strutturali del bene, per cui, una volta disintegrato esso diventa un detrito spaziale, con una chiara linea di demarcazione, i cui effetti si producono principalmente sul piano della responsabilità, trattandosi di oggetto al di fuori del controllo dello Stato.

Per tale ragione, l’opinione più diffusa è basata su un approccio funzionale (più che sulla dimensione o l’origine dell’oggetto), adottato dalle Linee Guida UNCOPUOS.

Da un punto di vista risarcitorio, si tende a determinare il concetto di detrito spaziale secondo una interpretazione dinamica ed evolutiva e non statica, principio applicato dalla Corte Internazionale di Giustizia in diversi casi, laddove ha affermato che i Trattati devono essere interpretati alla luce dei nuovi e contemporanei sviluppi anche nel caso in cui essi non erano noti o compresi al momento della sua stipula; ragione per cui si ritiene che essi siano inclusi, anche sulla base dei lavori preparatori della Convenzione, nel suo ambito di applicazione.

Gli argomenti contrari a tale interpretazione si concentrano su due aspetti: il primo è che se gli Stati fossero responsabili anche per i detriti, in quanto compresi nella definizione di “space objects”, ciò si porrebbe in contrasto con uno dei principi fondamentali del diritto spaziale, vale a dire la promozione delle attività nello spazio, in quanto l’imposizione di un regime di responsabilità per i danni causati da detriti spaziali provocati senza colpa dallo Stato di lancio, inciderebbe sensibilmente sull’accesso degli Stati meno avanzati, sotto il duplice profilo dei rischi e dei costi.

Naturalmente, tale visione non tiene conto della natura della Convenzione focalizzata soprattutto sulla tutela della vittima e delle connesse implicazioni di natura ambientale.

Tuttavia, proprio il diverso regime di responsabilità nello spazio, basato sul concetto di colpa, è stato anche interpretato nel senso che lo Stato vittima, operando in un ambiente estremamente pericoloso come lo spazio, abbia assunto una sorta di rischio nell’intraprendere attività di natura spaziale, che andrebbe, quindi, a limitare il principio di “responsabilità oggettiva” derivante dalla mera inclusione di tutti i detriti nella definizione di oggetti spaziali.

A tale proposito, è stato suggerito che potrebbe essere utile la definizione elaborata nell’ILA (International Law Association) del 1994, che indica quale ulteriore criterio di distinzione quello della utilità dell’oggetto per lo Stato di lancio (requisito che escluderebbe i detriti dalla definizione di space object), ipotesi che, tuttavia, non ha portato ad alcun risultato pratico.

Una ulteriore questione interpretativa da dirimere concerne la definizione di “launching State”.

L’articolo 1 include in tale nozione (i) lo Stato che ha effettuato il lancio; (ii) lo Stato che procura il lancio; (iii) lo Stato dal cui territorio è stato lanciato l’oggetto spaziale e (iv) lo Stato dalla cui struttura è stato lanciato.

A tale proposito, si può osservare, in primo luogo, che molti Stati possono essere considerati, sulla base di tali diversi criteri, quali Stati di lancio; così come può, inoltre, verificarsi il caso di lancio congiunto da parte di più Paesi, ipotesi che può configurare una sorta di responsabilità solidale ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione, che prevede anche un diritto di rivalsa nei confronti degli Stati coobbligati da parte dello Stato al quale sia stato richiesto l’intero risarcimento dovuto.

Inoltre, sussiste la questione del coinvolgimento a vario titolo di enti privati nelle operazioni di lancio: tale eventualità è disciplinata dall’articolo 6 del Trattato sullo Spazio che prevede una responsabilità oggettiva internazionale dello Stato per le attività nazionali intraprese nello spazio da parte di enti non governativi.

Per tale ragione, proprio in considerazione di tale responsabilità oggettiva, gli Stati tendono a trasferire la loro responsabilità agli attori privati – le cui attività commerciali ormai dominano l’intero settore – mediante il sistema delle licenze ed attraverso l’imposizione di idonee coperture assicurative obbligatorie “all risk”.

Il regime di responsabilità

La Convenzione prevede due diversi regimi di responsabilità a seconda del luogo dove si verifica il danno.

1. Qualora il danno sia stato causato da un oggetto spaziale sulla superficie terrestre, l’articolo 2 stabilisce un principio di responsabilità assoluta, a tutela dello Stato danneggiato (basato su un principio generale di diritto internazionale, riconosciuto dall’art. 38, par. 1, lettera c) della Corte Internazionale di Giustizia, sulla responsabilità assoluta degli Stati per le attività c.d. “ultra pericolose”); tale disposizione ha trovato attuazione nel 1978, allorchè un satellite sovietico (Cosmos 954) rientrando nella Terra, diffuse detriti spaziali in un’area di 124.000 metri quadrati del territorio canadese, controversia che si concluse con un accordo bilaterale ove vennero richiamati sia la Convenzione del 1972 che i principi generali di diritto internazionale.

Occorre, peraltro, precisare che tale rischio concerne principalmente un limitato numero di Stati posti geograficamente nella fascia equatoriale, poiché è proprio da tale area che usualmente provengono i lanci.

Inoltre, la protezione dell’ambiente non è autonomamente presa in considerazione dall’articolo 2, come confermato anche dall’articolo 1, ove il termine “danno” è riferito esclusivamente alla perdita o al ferimento di persone o a danni a proprietà dello Stato, ovvero di persone fisiche o giuridiche o di organizzazioni internazionali intergovernative.

2. L’articolo 3 prevede, invece, un regime di responsabilità di natura colposa, qualora il danno cagionato dall’oggetto spaziale si verifichi in un luogo diverso dalla superficie terrestre.

Il concetto di colpa (fault) non è definito nella Convenzione, anche se il diritto internazionale tende a qualificarlo come condotta intenzionale o negligente: se la valutazione della negligenza deve essere, naturalmente, effettuata sulla base del caso specifico, il termine di paragone per verificare la portata degli sforzi compiuti dallo Stato per evitare l’incidente (e, quindi, il suo grado di diligenza) è normalmente individuato nelle Linee Guida tecniche elaborate dall’UNCUOPOS.

Una ultima annotazione deve essere effettuata in relazione a quanto disposto dall’art. 7 della Convenzione, che esclude la sua applicazione ai danni cagionati da un oggetto spaziale di uno Stato di lancio ai cittadini di quello Stato.

A tale proposito, occorre evidenziare che gli enti (anche privati) che posseggono i satelliti, spesso hanno la nazionalità di quei pochi Stati attivi in tale settore, in tal modo privando potenzialmente i cittadini di quel Paese, di ogni tutela risarcitoria, ipotesi, tuttavia, non ricorrente nel caso di lanci congiunti, ove il risarcimento potrà essere richiesto nei confronti degli altri Stati di lancio.

Le Space Debris Mitigation Guidelines ed altre norme di “Soft Law

Nel 1994, l’UNCOPUOS (United Nations Committee on Peaceful Uses of Outer Space) per la prima volta considerò i detriti spaziali come un tema specifico nella sua agenda. Da allora, tale questione venne affrontata quasi ogni anno, sino a quando, nel 1999, venne adottato un rapporto tecnico sui rischi derivanti da tale fenomeno; l’incapacità di raggiungere un accordo su uno strumento normativo vincolante, dirottò gli sforzi sulla elaborazione di Linee Guida, focalizzate principalmente sull’obiettivo di impedire il proliferare di nuovi detriti.

Nel 2003, l’ente intergovernativo IADC (Inter-Agency Space Debris Mitigation Comunittee) sottopose all’UNCOPUOS una bozza di linee guida che vennero infine adottate nel Giugno 2007. Si tratta, in generale, di prescrizioni di natura tecnica e non di soluzioni di natura giuridica, come confermato dal fatto che nella loro elaborazione non venne coinvolto il Legal Subcommittee.

Lo IADC costituisce un forum intergovernativo di estrema importanza per l’elaborazione di chiare e riconosciute politiche di indirizzo e di indicazioni di natura tecnica riconosciute a livello internazionale e tra i suoi membri vi sono le Agenzie Spaziali nazionali (tra le quali, la nostra ASI e l’ESA).

Le Space Debris Mitigation Guidelines elaborate dall’UNCOPUOS, pur non avendo natura vincolante, forniscono indicazioni sui limiti dei detriti rilasciati durante le normali operazioni; sulla minimizzazione della rottura di oggetti spaziali durante le fasi di lancio ed operative; sulla limitazione del rischio di collisioni accidentali in orbita e di distruzioni intenzionali ed altre attività pericolose; sulla minimizzazione dei rischi derivanti da rotture post missione causate dall’energia immagazzinata; sulla limitazione della presenza a lungo termine di oggetti spaziali nelle fasce orbitali dopo la fine delle loro missioni.

Tali norme sono assimilate nel diritto internazionale al c.d. Soft law, che, pur agendo su base volontaria, hanno un significativo impatto normativo ed incidono sul comportamento degli Stati.

Tali Guide Lines hanno colmato una serie di lacune non affrontate dal diritto convenzionale: in primo luogo, hanno fornito una definizione di detriti, prevedendo, inoltre, una serie di misure concrete per mitigare tale fenomeno da adottare anche quali criteri per valutare la condotta degli Stati; infine, hanno previsto uno status speciale per la Low Earth Orbit (LEO) e la Geostationary Orbit (GO) che costituiscono le orbite di maggior valore, sia dal punto di vista scientifico che strategico.

Tali disposizioni hanno, inoltre, dimostrato, secondo alcuni, che non è sempre necessaria nel diritto spaziale, la conclusione di Trattati internazionali con le relative obbligazioni vincolanti, considerata la complessità delle loro gestazioni, in quanto il medesimo obiettivo può essere raggiunto anche mediante l’adozione di norme “soft law”.

Inoltre, con l’imposizione agli Stati di prescrizioni e condotte alle quali viene data spontanea attuazione, anche mediante la loro incorporazione nel diritto domestico, si possono determinare norme di diritto internazionale consuetudinario.

Un ulteriore strumento di estrema importanza nella sicurezza e sostenibilità dell’esplorazione spaziale e nel contrasto al fenomeno dei detriti è costituito dallo Space Situational Awareness (SSA), un processo di elaborazione dati aggiornato, accurato e trasparente dell’ambiente spaziale operativo, che richiede una rete di sensori distribuiti a livello globale e la condivisione di informazioni tra i proprietari dei satelliti. In tale ambito, nel 2008, anche l’Agenzia Europea ESA ha intrapreso il SSA Preparatory Program per creare una SSA a livello europeo, basato sui dati provenienti dagli Stati membri, che si aggiungono a quelli predisposti dagli altri Stati leaders nel settore, in primo lugo USA e Russia.

Un determinante passo in avanti verso la sostenibilità dello spazio esterno è stato, inoltre, compiuto con le Guidelines for the Long Term Sustainability of Outer Space Activities, adottate nel 2019 dal COPUOS dopo 10 anni di negoziato, che rappresentano un segno tangibile di interesse degli Stati in materia di protezione ambientale e che possono essere raggruppate in quattro categorie: la prima, di indirizzo e di natura regolamentare; la seconda, in materia di sicurezza nelle operazioni spaziali; la terza, in materia di cooperazione e di sviluppo delle capacità, nonché di condivisione dei dati a supporto della sostenibilità a lungo termine; la quarta, concerne aspetti tecnici e scientifici.

L’attuazione di tali Linee Guida richiederà una sempre più ampia armonizzazione delle legislazioni nazionali ed una effettiva cooperazione tra gli Stati, considerata anche la molteplicità delle giurisdizioni coinvolte in materia di attività spaziali.

Nella stessa direzione operano le misure per la riduzione dei detriti elaborate dalla International Organization for Standardization (ISO), aggiornate nel 2019 e le linee guida predisposte dalla International Telecommunication Union relative alle pratiche sostenibili nell’orbita geostazionaria, caratterizzata dalla notevole presenza di satelliti in un’area così delicata e prossima alla terra.

Anche l’Unione Europea sta focalizzando i suoi sforzi sul problema dei detriti con una iniziativa diplomatica denominata Safety, Security and Sustainability of Outer Space intrapresa nel 2019.

Occorre segnalare, inoltre, il ruolo sempre più incisivo del settore privato nello sviluppare misure tecnologiche, finanziarie ed operative per affrontare le sfide in tema di sostenibilità spaziale, confermato da uno studio dello Space Tech Analytics che riportava la presenza, nel 2021, di 12.000 società private operanti nell’ambito della tecnologia spaziale e di 5000 investitori.

In tale contesto, devono, inoltre, essere menzionate alcune importanti iniziative provenienti dalle industrie del settore: nell’ottobre del 2019, l’adozione da parte della Satellite Industry Association (SIA) di una serie di Principles of Space Safety for the Commercial Satellite Industry e, soprattutto, l’introduzione dello Space Sustainability Rating System (SSR) discusso al World Economic Forum e sviluppato da enti spaziali, tra i quali l’ESA, con l’obiettivo di assicurare – anche se su base volontaria – che gli operatori in materia satellitare progettino missioni compatibili con standards di sostenibilità; infine, sempre nell’ambito del WEF, nel Giugno 2023, è stato sottoscritto un documento denominato Space Industry Debris Mitigation Guidelines, di notevole importanza, provenendo dagli stessi operatori e protagonisti delle attività spaziali (ma non sottoscritto da Space X ed Amazon), tra le quali rientra l’obiettivo di stabilire un target di successo nel post-mission disposal e di rimozione dei satelliti dall’orbita al termine delle loro missioni, da completarsi entro cinque anni dalla conclusione della missione, dal 95% al 99%.

Tali linee guida includono, inoltre, indicazioni al fine di evitare rischi di collisione, in materia di manovrabilità e propulsione di satelliti; di condivisione di dati e di gestione di traffico in orbita e misure finanziarie con coperture assicurative, dirette anche ad incentivare appropriati standards di sicurezza e di protezione ambientale (come, ad esempio, il citato SSR), con un invito ai Governi a supportare politiche di sviluppo di Active Debris Removal e di sostenibilità delle operazioni spaziali.

Esistono, infine, numerose ulteriori iniziative nell’ambito della c.d. Corporate Social Responsability (in un contesto dove storicamente le società non sono un soggetto di diritto internazionale), dirette ad assicurare che tutti i tipi di società condividano istanze di natura ambientale e sociale nelle loro interazioni con gli stakeholders e con la società nel suo insieme; ciò in considerazione del fatto che, come riportato nel Rapporto del Segretario Generale ONU sulla riduzione delle minacce nello spazio, mediante norme, regole e principi di comportamento responsabile del 2021, i detriti costituiscono il rischio maggiore e la principale fonte di inquinamento nello spazio.

La rimozione dei detriti

Come già evidenziato, la definizione di oggetti spaziali è rilevante anche nell’ambito di due altri Trattati in materia di spazio, vale a dire l’Outer Space Treaty del 1967 ed il Rescue Agreement del 1979.

In particolare, tale ultima Convenzione impone agli Stati contraenti di restituire gli oggetti spaziali rinvenuti nei loro territori agli Stati lancio e, quindi, anche i detriti spaziali, qualora la loro definizione sia inclusa in quella di space objects.

Vi è un unanime consenso sul fatto che la riduzione dei detriti non sia sufficiente per mitigare il fenomeno e che si renda, quindi, necessaria la loro rimozione, in particolare nell’orbita terrestre bassa e nella orbita geosmicronica.

E’ stato, inoltre, sostenuto che la stessa creazione di un detrito spaziale possa di per sé rientrare nel concetto di colpa nell’ambito della Convenzione sulla responsabilità, quale conseguenza del mancato rispetto delle citate Linee Guida elaborate dall’UNCOPUOS, così come della Convention on Registration of Objects Launched into Outer Space (adottata con Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU 3235 del 12.11.1974), oltre che di altri strumenti non normativi quali l’European Code of Conduct for the Mitigation of Space Debris.

Tuttavia, nonostante l’obbligazione di natura generale prevista dall’art. 6 del Trattato sullo Spazio a carico dello Stato circa il controllo e la primaria responsabilità sulle attività spaziali condotte dai propri cittadini, non è stato previsto un meccanismo coercitivo ed attuativo rispetto alla rimozione degli oggetti; tale lacuna, secondo molti autori, giustificherebbe l’adozione del rimedio della rimozione della c.d. space junk, quale legittima misura di cautela o quale contromisura rispetto all’obbligo generale di non creare detriti spaziali (sul presupposto, naturalmente, che gli oggetti spaziali includano anche i detriti).

Occorre, inoltre, considerare che attualmente non esiste una norma che impedisca ai Paesi di distruggere o abbandonare i loro satelliti nello spazio (ad esempio, mediante missili di superficie denominati anti-satellite, designati per scopi militari ai fini di spionaggio e/o di intercettazione) e che la militarizzazione dello spazio, oltre a creare detriti spaziali (il 25% secondo stime ESA), diminuisce inevitabilmente il livello di cooperazione per evidenti ragioni di sicurezza e riservatezza dei dati.

Anche l’art. 3 del Trattato, ove viene richiamato il principio di cooperazione e la “comprensione fra gli Stati” nella conduzione delle attività spaziali, è di notevole rilevanza in tale ambito, poiché la cooperazione tra i Paesi e l’obbligo di negoziare in buona fede sulle questioni di comune interesse, sono ancora più essenziali nella protezione dell’ambiente. Sotto tale profilo, la rimozione dei detriti costituisce un’attività che coinvolge necessariamente la comunità internazionale, considerati i profili transfrontalieri della regola del no harm, ma anche della sostenibilità e, in generale, del diritto ambientale in tema di inquinamento.

Tuttavia, rimangono da risolvere questioni determinanti sul piano giuridico, in primo luogo quella del consenso dello Stato proprietario dell’oggetto, ma anche quella della indeterminabilità dello Stato di appartenenza, in particolare con riferimento ai detriti dalle dimensioni più ridotte.

Alcuni studiosi hanno evidenziato che potrebbero essere applicati nello spazio, in materia di rimozione dei detriti, i principi affermati nel diritto del mare, in particolare in tema di diritto di passaggio, quale attuazione del diritto di esplorazione, che costituisce uno dei principi fondanti dell’Outer Treaty; pertanto, sulla base di tale assunto, se i detriti spaziali possono essere considerati un ostacolo che preclude o restringe l’accesso, ciò determinerebbe una violazione del Trattato. L’assenza di un meccanismo di risoluzione delle controversie costituirebbe a sua volta il presupposto per l’applicazione del c.d. Active Rebris Removal al fine di ripristinare l’accesso allo spazio.

Un ulteriore argomento a supporto dell’applicabilità di tale principio – la cui attuazione presuppone, altresì, che non sia necessario il consenso dello Stato interessato – è che i detriti spaziali possono essere qualificati come una forma di inquinamento e che, pertanto, sarebbe applicabile il principio 2 della Dichiarazione di Rio che sancisce l’obbligo a carico degli Stati di impedire danni transfrontalieri (come può essere considerato lo spazio).

Inoltre, nell’esplorazione spaziale, gli Stati hanno l’obbligo di considerare gli interessi degli altri Paesi e di recuperare i materiali inquinanti da essi prodotti, dimostrando, in base al principio di due diligence, di aver adottato tutte le misure possibili.

Il diritto del mare offre interessanti spunti applicativi, in tema di salvataggio ed abbandono, sia nella Convenzione di Montego Bay del 1982, che in accordi specifici quali le Convention on Salvage firmata a Londra nel 1989 (che concerne principalmente la sicurezza delle imbarcazioni e delle persone, ma anche la protezione dell’ambiente), in base alle quali anche enti privati diversi dal proprietario, possono avanzare pretese economiche per il “salvataggio” dell’oggetto, a condizione che non vi sia alcuna speranza di recupero ed il proprietario non intenda effettuarlo; che l’operazione di salvataggio avvenga su base volontaria e non per un dovere esistente e che l’oggetto sia stato recuperato con successo.

Nel cosmo, la declinazione pratica di tali istituti, deve partire da quanto disposto dall’art. 8 del Trattato sullo Spazio, che attribuisce la proprietà dell’oggetto spaziale e di tutti i suoi componenti al c.d. launching State e, conseguentemente, anche la responsabilità e la giurisdizione, sulla base di un principio di effettività.

A tale proposito, è stato sostenuto che questa responsabilità si estenderebbe anche ai detriti ed alla loro rimozione, rispetto ai quali l’Agenzia ONU sugli Affari dello Spazio Extra-atmosferico (UNOOSA), quale ente demandato allo sviluppo di leggi e regolamenti relativi alle attività spaziali, potrebbe attivarsi per ottenere il permesso dello Stato di rimuovere detriti rientranti nella sua giurisdizione (senza, tuttavia, avere facoltà coercitive o di natura obbligatoria).

Nel caso specifico di abbandono di oggetti (che, secondo alcune stime, costituiscono il 93% degli oggetti spaziali orbitanti), essi potrebbero essere considerati quali res derelicta, quindi beni abbandonati senza l’intenzione di trasferirne la proprietà, tanto più che l’art. 8 del Trattato sullo Spazio si riferisce, secondo i sostenitori di tali teorie, esclusivamente agli oggetti spaziali funzionali ed operativi.

La nozione di abbandono, in realtà, non esiste ancora nel diritto spaziale: ed è proprio per questa ragione che taluni autori sostengono che il diritto del mare possa essere trasposto, in quanto i detriti potrebbero essere assimilati ai relitti o rottami abbandonati in ambito marittimo, dove ciascuno Stato può rimuovere senza necessità di alcun consenso (principio che molti autori ritengono sia entrato a far parte del diritto consuetudinario).

Per di più, accordi internazionali quali la Nairobi International Convention on the Removal of Wrecks del 2007, esprimono gli stessi principi, obbligando il proprietario a rimuovere i relitti in caso di pericolo.

In tale contesto, di estrema rilevanza sono i costi della rimozione, se si consideri che, secondo stime NASA del 2019, il totale della massa dei detriti nella orbita terrestre bassa (LEO) è di circa 6.000 tonnellate.

Negli ultimi decenni, infine, sta prendendo sempre più vigore il dibattito sulle questioni di natura ambientale nello spazio.

Paralleli con il diritto internazionale ambientale

Nell’ambito delle politiche di contrasto e di elaborazione di una normativa ad hoc in materia di detriti spaziali, molti studiosi sostengono che possano trarsi utili fonti di ispirazione dai principi che regolano il diritto ambientale a livello internazionale, considerate le similitudini esistenti tra questi due settori del diritto e tra le questioni che sono chiamate ad affrontare.

Entrambi tali campi sono caratterizzati dalla presenza di soggetti statali e privati che operano su basi transfrontaliere e, soprattutto nello spazio, sono accomunati dalle difficoltà relative alla identificazione del responsabile alla valutazione ed alla dimostrazione del danno e della sua entità.

Come noto, lo sviluppo sostenibile, centrale nel diritto ambientale internazionale e contenuto in molteplici Trattati, è considerato quello che affronta le necessità del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future di fare fronte alle loro esigenze.

Alcuni autori affermano che il Trattato dello Spazio, sia nel Preambolo che all’articolo 1 (ove lo spazio è definito “provincia di tutta l’umanità”), sia all’art. 9 (nel quale vengono utilizzate espressioni quali “harmful contamination” e “adverse changes”) contenga elementi di sviluppo sostenibile, che si traduce in termini pratici in quello di “uso sostenibile” (al quale fa espresso riferimento la Dichiarazione di Nuova Delhi del 2021, proprio con riferimento allo spazio).

Il principio di sostenibilità, che impone un uso delle risorse in maniera tale da assicurarne la longevità e ne impedisca un rapido esaurimento, potrebbe trovare applicazione con riferimento all’uso delle orbite GEO e LEO, ma anche in materia di rimozione dei detriti.

A tale proposito, occorre segnalare i progressi che si stanno compiendo in tema di sostenibilità spaziale, ad esempio mediante la riutilizzabilità dei sistemi di lancio da parte della Space X (l’Azienda Spaziale statunitense fondata nel 2002 da Elon Musk con l’obiettivo di creare le tecnologie per ridurre i costi dell’accesso allo spazio e permettere la colonizzazione di Marte), in particolare del veicolo Starship, con riduzione delle emissioni di carbonio ed altri meccanismi di economia circolare per ridurre l’impatto ambientale (oltre che economico), già parzialmente applicati per il booster riutilizzabile Falcon 9 e Falcon Heavy.

Nella stessa direzione sembra procedere anche l’altro competitor Blue Origin (società fondata nel 2000 da Jeff Bezos), protagonista nello sviluppo di concept e tecnologie per future operazioni di volo spaziale umano con il lanciatore riutilizzabile New Glenn, designato per un numero minimo di 25 viaggi.

Inoltre, il riconoscimento della vulnerabilità dell’ambiente e dei limiti della ricerca scientifica, costituiscono l’aspetto essenziale del principio di precauzione, di tutta evidenza nel contesto dello spazio, considerata la natura irreversibile e potenzialmente devastante dei danni provocati in tale ambiente.

Analogamente, dovrebbero trovare applicazione il principio di prevenzione (che, a differenza di quello di precauzione, riguarda situazioni caratterizzate da rischi prevedibili e dimostrati) rinvenibile anche nell’art. 9 del Trattato sullo Spazio e nelle citate Linee Guida UNCOPUOS del 2019: il Principio delle Responsabilità Comuni ma differenziate (incorporato nel Principio 7 della Dichiarazione di Rio che afferma la responsabilità comune di tutti gli Stati nella protezione dell’ambiente, ma tenendo conto del diverso contributo all’inquinamento ed alle differenti capacità nel contrastarlo) ed il Principio chi inquina paga (la cui adozione, nell’ambito dello spazio, richiederebbe un ampio consenso per trovare effettiva attuazione).

Naturalmente, l’effettiva applicazione di tale ultimo principio anche nello spazio, mediante l’addebito dei costi di rimozione dei danni ambientali e di programmi di prevenzione, costituirebbe un enorme passo in avanti rispetto a tale obiettivo, forse non così irraggiungibile, considerato l’ampio consenso raggiunto negli accordi internazionali nei quali è stato incorporato, vale a dire l’Accordo di Copenaghen del 2019 e l’Accordo di Parigi nel 2016, ove gli Stati contraenti hanno concordato l’implementazione di una imposta sulle emissioni di carbonio quale strumento di contrasto all’inquinamento dell’aria.

L’obiettivo di far rientrare l’ambiente spaziale nell’alveo dello sviluppo sostenibile, potrebbe essere raggiunto, inoltre, mediante l’applicazione del “17 Sustainable Development Goals on Earth” fissati dall’ONU, con la Risoluzione “Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development”: sul punto, si è aperto un ampio dibattito sulla possibilità di far rientrare l’ambiente dello spazio in uno di tali 17 obiettivi e se lo spazio stesso possa essere considerato un diciottesimo autonomo obiettivo di sviluppo sostenibile, considerata la sua fragilità e la necessità, in applicazione del precautionary principle, che le attività spaziali siano ridotte o comunque riconciliate al fine di renderle sostenibili per le future generazioni.

L’introduzione di un regime normativo vincolante che renda effettiva l’applicazione di tali principi, è considerata da molti necessaria in considerazione del fatto che i pur importanti meccanismi di Soft Law sopra descritti, nonostante abbiano avuto una ampia adesione (in particolare le Linee Guida UNCOPUOS), non hanno raggiunto un totale livello di applicazione, come confermato da un rapporto dell’ESA del 2017, ove viene segnalato il livello insoddisfacente della loro attuazione a distanza di quindici anni dalla loro adozione ed il deficit esistente rispetto all’obiettivo di preservazione dell’ambiente terrestre per le future generazioni.

Proprio per tale ragione, l’Agenzia Spaziale Europea ha prodotto nel Novembre 2023, il documento denominato “Zero Debris Charter” con il programma ambizioso di contrastare in maniera radicale tale fenomeno entro il 2030.

Da ultimo, occorre sottolineare il costante impegno dell’Italia nelle politiche di contenimento del numero dei detriti ed in particolare dell’Agenzia Spaziale Italiana: in particolare, tale Ente, molto attivo nelle iniziative di ricerca è, tra i membri fondatori dell’IADC e rappresentante nazionale nell’ambito del progetto europeo Space Surveillance and Tracking (SST), costituito da una rete di sensori con funzioni di ricerca e rintraccio di oggetti spaziali, quale parte del Programma Spaziale adottato dall’UE con Regolamento 2021/696 del Parlamento e del Consiglio Europeo.

Conclusioni

Il sistema normativo attuale è frutto di un’epoca profondamente diversa, sia a livello socio-economico che tecnologico e mostra evidenti lacune nell’affrontare la questione dei detriti spaziali.

In molti sostengono che sia ormai indispensabile un regime giuridico sui generis in materia di detriti, considerato che molte questioni, anche con il quadro normativo sopra delineato, rimangano eluse; in particolare, per quanto concerne il regime di responsabilità per i danni cagionati dai detriti o dai tentativi effettuati per porvi rimedio o rimuoverli, sul diritto a rimuoverli e sugli eventuali indennizzi, sulla titolarità di tali beni, sul meccanismo di risoluzione delle controversie e sugli aspetti di diritto ambientale non espressamente regolamentati in tale settore.

La crescita esponenziale dei soggetti privati e delle attività dello spazio, rende necessario un quadro certo su tali questioni ed una chiara individuazione delle responsabilità, tenendo conto, naturalmente, di quanto già previsto dalla Liability Convention.

Occorrerà quanto prima ripensare ad un regime internazionale, anche sulla base di quanto già previsto in materia dal diritto del mare e dal diritto dell’ambiente, per meglio regolare le attività spaziali ed affrontare in modo più efficace il problema della spazzatura e dei detriti nello spazio.

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Space-Law Avvocato Marco-Machetta Delimitazione spazio Cosmico
Avv. Marco Machetta

Avvocato esperto in diritto internazionale, diritto marittimo e commerciale. Ha collaborato con il Prof. Umberto Leanza, partecipando alle attività di studio e di ricerca della cattedra di diritto internazionale della Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, in particolare in materia di Diritto Internazionale del Mare, di regime giuridico dei satelliti e dell’orbita geostazionaria e sul regime giuridico dell’Antartide. Ha partecipato, in più occasioni, per conto del Ministero degli Affari Esteri, in qualità di esperto giuridico, ai lavori della Commissioni O.N.U. Uncitral (United Nations Commission on International Trade Law); è stato, altresì, membro della delegazione italiana ai lavori della Hague Conference on Private International Law.