Spazio e Mare: le analogie tra Diritto dello Spazio ed il Diritto del Mare

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Spazio e Mare: la Convenzione sul diritto del mare può fornire un utile modello di riferimento nella individuazione di un regime normativo spaziale.

L’analogia tra il diritto del mare ed il diritto dello spazio ha da tempo costituito un tema ricorrente tra gli studiosi della materia e nei vari consessi internazionali, per essere, tali ambienti, accomunati dalla assenza di giurisdizioni nazionali e dalla loro natura di terra estrema e di frontiera per l’uomo.

La Convenzione di Montego Bay del 1982, che costituisce l’architrave su cui è fondato il diritto internazionale del mare, ha già affrontato numerose questioni attualmente al centro del dibattito in materia di diritto dello spazio, come quella dello sfruttamento delle risorse minerarie nelle aree non soggette a giurisdizione nazionale, ma, prima ancora, quella del regime giuridico di tali aree e la regolamentazione delle attività che vi si svolgono.

La Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare

La Convenzione, in conformità al diritto internazionale consuetudinario, ha diviso il mare in un una serie di zone marittime (naturalmente all’interno dello Stato vi possono essere acque interne, quali fiumi, laghi, canali, che sono considerati parte del territorio nazionale).

La prima fascia, adiacente alla costa è considerata mare territoriale (sino a 12 miglia nautiche dalla costa) e può essere accompagnata (ma non necessariamente) da una zona contigua (ulteriori 12 miglia del limite esterno del mare territoriale), nonché da una piattaforma continentale (il prolungamento naturale del territorio terrestre nelle aree sottomarine) e da una Zona Economica Esclusiva che raggiungono i 200 miglia marine dalla linea di costa.

La Convenzione è stata firmata da 168 Stati (oltre l’Unione Europea), mentre il Trattato aggiuntivo del 1994 (che ha costituito l’intera parte 11 della Convenzione), ha conseguito la ratifica di 152 Stati. L’Italia ha ratificato l’accordo con la legge 2.12.1994 n. 689.

Sebbene non vi sia un unanime consenso su quali parti della Convenzione siano da considerare diritto consuetudinario e, quindi, anche sulla sua natura vincolante rispetto agli Stati terzi, non vi è dubbio che essa rappresenta la legge del mare, anche se, da un punto di vista pratico, la mancata ratifica da parte degli Stati Uniti è di considerevole rilevanza.

Il regime delle acque internazionali

Per quanto attiene alle acque internazionali ed alle risorse che vi sono presenti, vale a dire l’area ove è maggiormente ravvisabile un’analogia con lo spazio cosmico, la Convenzione di Montego Bay ha affermato il principio generale secondo cui esse costituiscono patrimonio comune dell’umanità, non sono soggette alle rivendicazioni ed alla sovranità di alcun Stato (art. 89) e nessun Paese può compiervi atti o ledere il diritto di un altro Stato o dei suoi cittadini di farne uso (all’art. 2).

Il principio di res communis è stato traslato in quello della c.d. freedom of highs seas che si applica anche con riferimento a tutte le risorse, viventi o meno, presenti in tali aree ed è ormai divenuto un principio di diritto internazionale consuetudinario.

Anche il Trattato sullo Spazio del 1967, in realtà, esprime, in termini generali, tali principi, affermando l’uso libero dello spazio per sole finalità pacifiche da parte di tutti gli Stati, senza discriminazioni (art. 1) ed escludendo rivendicazioni di natura nazionale (art. 9).

Nell’alto mare (le acque internazionali), tutti gli Stati, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, sono liberi di navigare, sorvolare, pescare, installare cavi sottomarini, costruire isole artificiali ed altre installazioni consentite dal diritto internazionale o condurre ricerche scientifiche (art. 87).

Queste libertà non sono, tuttavia, illimitate, in quanto devono essere esercitate con “due regard” per gli interessi degli altri Stati, concetto che pur non espressamente definito, appare in numerose fonti e trattati ed è usualmente valutato con riferimento alle circostanze concrete e dalla natura dei diritti in questione.

Come accennato, l’alto mare deve essere utilizzato solo per scopi pacifici (art. 88), formula interpretata in modo molto ampio, tanto che è generalmente accettato che, così come per lo spazio, le acque internazionali possano essere destinate a molti usi militari, quali il transito di navi da guerra ed alcuni tipi di ricerche da parte di tali imbarcazioni, o determinati usi di cavi o condotte/oleodotti poste sott’acqua e che vi si possano svolgere anche esercitazioni militari (con relative zone di esclusione) e persino esperimenti su armi. In generale, si ritiene, ma non in modo unanime, che l’uso pacifico equivalga a “non aggressivo”. In tale ambito, è di estrema rilevanza la questione dello status delle navi o degli oggetti spaziali (la Convenzione di Montego Bay definisce all’art. 29 le navi da guerra, mentre la definizione delle navi ausiliari e delle navi mercantili è contenuta all’art. 13 del San Remo Manual on International Law Applicable to Armed Conflicts at Sea del 31.12.1995).

La giurisdizione nelle acque internazionali

Tali aree, pur libere, sono regolate, ai sensi dell’art. 92, dalla legge (e dalla giurisdizione) dello Stato che dà la bandiera all’imbarcazione (flag-state) con il quale deve esistere un legame sostanziale ed un collegamento effettivo; ne consegue che tutte le navi devono essere registrate ed avere una nazionalità, sulla base delle condizioni per la concessione e l’immatricolazione stabilite da ciascuno Stato.

Pertanto, la giurisdizione dello Stato della bandiera sulle proprie navi e sull’equipaggio in alto mare, prevista dalla Convenzione di Montego Bay (art. 94) presuppone la necessità che tutte le navi siano registrate presso un registro statale e rispettino tutti i regolamenti dello Stato bandiera unitamente agli standards previsti dal diritto internazionale delle competenti organizzazioni (artt. 92-94), così come previsto nel Trattato sullo Spazio, con riferimento alla giurisdizione dello Stato della bandiera sulle navi, oggetti e personale dallo stesso lanciati nello spazio (artt. 7 e 8).

Naturalmente, sono altresì escluse attività illecite, come la pirateria (art. 101), traffico degli schiavi (art. 99) o di stupefacenti (art. 108) o radio/tele trasmissioni non autorizzate (art. 109), rispetto alle quali gli Stati hanno una obbligazione di natura generale nel contrastare tali attività (art. 100), oltre che, in generale, l’obbligo di cooperare nella conservazione e gestione delle risorse viventi (materia sulla quale è stato recentemente adottato dalle Nazioni Unite il 19.6.2023 il Trattato dell’Alto Mare, non ancora entrato in vigore).

Analogamente, lo spazio esterno è considerato res communis omnium e, pertanto, è privo di qualsiasi riferimento alla sovranità degli Stati. Il Trattato sullo Spazio del 1997, prevede, difatti,  all’art. 1) che il suo uso e l’esplorazione siano “province of all mankind”, con la conseguenza che nessun Stato, in linea di principio, può esercitare diritti di sovranità su di esso.

Tuttavia, tale regime giuridico non preclude che gli Stati, in analogia con quanto accade nel diritto del mare, possano esercitare la giurisdizione ed il controllo su beni e persone dello spazio cosmico, laddove vi sia un legame tra di loro.

Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti, ma la questione della giurisdizione, gioca un ruolo determinante in tutte le attività – lecite o illecite – svolte in acque internazionali, tenuto anche conto che la giurisdizione dello Stato della bandiera è soggetta ad alcune limitazioni (si pensi, ad esempio, al diritto di inseguimento di una nave straniera, codificato dall’art. 111 iniziato nelle zone marittime  di uno Stato o l’esercizio della giurisdizione penale, nel concorso di specifiche condizioni, da parte dello Stato costiero sui fatti avvenuti su navi straniere in transito nelle proprie acque territoriali) (art. 27).

In termini generali, l’opinione più diffusa è che le regole di giurisdizione applicabili alle navi, possano esserlo mutatis mutandis anche nell’ambito dello spazio, come si desume sia dall’art. 3 del Trattato sullo spazio che richiama le norme di diritto internazionale, sia sulla base del principio di territorialità.

La regolamentazione specifica delle diverse fattispecie avvenuta con la Convenzione di Montego Bay (ma anche con gli analoghi accordi internazionali), può essere assunta quale modello di riferimento in materia di giurisdizione anche nell’ambito dello spazio, ove sinora ci si è limitati alla enunciazione di principi di natura generale. 

Ulteriori analogie. L’obbligo di assistenza, il diritto di passaggio

Una tematica di notevole rilevanza ed affinità è costituita dall’obbligo di rendere assistenza, disciplinato dall’art. 98, ma presente anche all’art. 5 del Trattato sullo Spazio (oltre che oggetto dell’Agreement on the rescue of Astronauts, the Return of Astronauts and the return of objects lauched into outer space entrato in vigore nel Dicembre 1968, invero più focalizzati sulla componente umana rispetto a quanto previsto nel diritto del mare).

Nella Convenzione di Montego Bay sono, altresì, previsti strumenti normativi finalizzati a ridurre tensioni e ad impedire incidenti, anch’essi replicabili nell’ambito dello spazio, vale a dire i doveri dello Stato di bandiera contenuti all’art. 94 della Convenzione, ma anche in accordi internazionali, come la Convention on the International Regulations for Preventing Collisions at Sea del 1972 o accordi bilaterali, come nell’US-Societ Incident at Sea Agreement sempre del 1972 (accordo vincolante che ha ispirato molti altri di analoga natura) e nel Code for Unplanned Encounters  at Sea del 2014.

Un altro aspetto che accomuna lo spazio con le acque internazionali è costituito dal diritto di passaggio attraverso le acque territoriali, previsto dall’art. 17 e comunque parte del diritto consuetudinario, che deve essere garantito dallo Stato costiero senza ostacoli, ma che non è considerato inoffensivo qualora il passaggio pregiudichi gli interessi della nazionale interessata e la pace e la sicurezza dello Stato costiero (art. 19); analogamente, anche gli oggetti spaziali, nelle fasi di ascesa e discesa, hanno il diritto di passare attraverso lo spazio aereo senza che ciò comporti la lesione della sovranità dello Stato interessato.

Ed ancora, l’assimilazione tra astronauti e marinai, laddove, mentre nel diritto del mare la definizione di marinaio è evidente da un punto di vista pratico ed è stabilita giuridicamente, non lo è altrettanto  nel caso dello spazio, ove non vi è un trattato che fornisca una definizione  per gli astronauti; quest’ultima non necessariamente coincide con quella, in senso lato, di ciascuna persona a bordo di una nave spaziale, potendo, viceversa, essere individuata, ad esempio, solo nelle persone che operano nel velivolo (si considerino, ad esempio, le implicazioni giuridiche nel caso del turismo spaziale o l’ipotesi di atti criminali compiuti o di cui è vittima un’astronauta).

La natura duale nel mare e nello spazio

Il c.d. dual use dilemma  è sempre più ricorrente in entrambi i contesti naturali, nel  caso di beni impiegati per scopi militari e di sicurezza, ma anche per funzioni civili e commerciali; ipotesi ulteriormente distinta da quella di finalità bivalente di un oggetto designato per uso benigni (come la rimozione di detriti), ma che può essere ridestinato anche per danneggiare altri oggetti spaziali.

L’affermarsi delle tecnologie duali e gli ingenti investimenti del settore  privato nello sviluppo commerciale dei satelliti, ha reso frequente l’utilizzo di tali strumenti anche nell’ambito della sicurezza e della difesa, trattandosi di soluzione estremamente vantaggiosa per il contenimento delle spese per effetto del c.d. cost sharing; tuttavia, l’impiego duale pone questioni giuridiche non di poco conto in ordine all’uso di sistemi che presentano tali caratteristiche ed al regime dell’attività degli Stati e degli operatori privati. Difatti, l’impiego simultaneo, ad esempio, di un unico sistema satellitare per scopi civili e militari (e, quindi, anche da diverso personale), pone rilevanti problematiche in tema di acquisizione e diffusione dei dati ottenuti, di sicurezza nazionale ed internazionale e di controllo di tali tecnologie, senza considerare il rispetto delle obbligazioni contrattuali e le questioni inerenti i limiti delle licenze nei rapporti con gli operatori privati: tutti temi sui quali non è ancora stato codificato un regime internazionale condiviso che disciplini e contemperi lo sviluppo commerciale e le esigenze di sicurezza.

I fondali marini e lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo oceanico

Allo stato attuale, il tema che riscuote maggiore interesse in prospettiva è quello dei fondali  marini profondi e di quelli oceanici e del relativo sottosuolo ed i depositi delle risorse minerarie in situ, dove il principio di patrimonio comune dell’umanità prevale rispetto a quello del regime di libertà, senza possibilità di deroghe, in base all’art. 311 della Convenzione.

Su tale questione, l’acceso dibattito che sorse in occasione dei negoziati e del successivo periodo di ratifica, tra i sostenitori, da una parte, del principio di patrimonio comune (con relativa condivisione delle conoscenze, della tecnologia e dei relativi benefici in materia di esplorazione e sfruttamento delle risorse); dall’altra, della libertà di accesso, favorita dagli Stati più sviluppati (con relativa applicazione del principio first come, first served), è dimostrato dalla iniziale riluttanza di molti Stati a ratificare la Convenzione sino all’adozione, nel 1994 dell’Implementation Agreement or Exploration and Exploitation of Mineral Resources; con tale accordo, veniva riaffermata l’assenza di rivendicazioni  di sovranità, il divieto di appropriazione e l’esclusione di appropriazioni unilaterali e, in generale, il principio per cui tutte le attività relative alla esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali sarebbero state gestite dalla Autorità designata (competente in tale area) a beneficio dell’umanità, con contestuale nomina di una Autorità intergovernativa con il compito di amministrare, regolamentare e rilasciare licenze di sfruttamento, contemperando, tuttavia, anche gli interessi degli Stati o investitori privati promotori di tali iniziative.

Il principio di common heritage era stato applicato anche in occasione del precedente c.d. Trattato sulla Luna e gli altri corpi celesti del 1979, di cui sono tuttavia parti solo 18 Stati, che aveva come obiettivo, senza averlo raggiunto, quello di stabilire l’ambito della nozione di patrimonio con riferimento al diritto di ciascun Paese rispetto alle risorse naturali.

Il sostanziale fallimento di tale accordo, conferma il fatto che la rigida applicazione di un modello normativo che non tenga conto della circostanza oggettiva che solo alcuni Stati sono in grado di investire e compiere tali attività, non conduce ad alcun risultato pratico.

Pertanto, allo stato, è il Trattato sullo Spazio, con le sue 130 ratifiche, che continua a costituire la normativa di riferimento in materia di sfruttamento delle risorse dei corpi celesti, anche se in termini assolutamente generici.

Difatti (la questione verrà affrontata in modo più dettagliato in un altro articolo), in questa cruciale materia, il diritto dello spazio – a differenza di quanto avvenuto nel diritto del mare – è tuttora privo di una specifica normativa, ad esempio, in materia di doveri degli Stati su controllo, cooperazione, ruolo dei soggetti privati, anche perché all’epoca tali possibilità apparivano, naturalmente, ancora remote.

L’international Seabed Authority

Come accennato, la legislazione sul diritto del mare, ha affrontato analoghe questioni e preoccupazioni elaborando un modello applicativo del principio di common heritage of mankind mediante l’istituzione della International Seabed Authority (ISA) ai sensi dell’art. 156, che potrebbe essere replicato  nell’ambito dello spazio in materia  di sfruttamento minerario dei corpi celesti.

Il vero problema sarà quello di trovare un punto di equilibrio tra l’applicazione di tale universale principio e gli interessi degli Stati più tecnologicamente avanzati in questo settore, generalmente ostili ad un meccanismo di equity sharing e non di libero mercato.

L’ISA, composta da una Assemblea, un Consiglio ed un Comitato Tecnico e Legale, opera sulla base di un principio di consenso a maggioranza ed un approccio pratico e di natura scientifica ed è composto da tutti gli Stati membri della Convenzione.

Tale ente, costituito per fare fronte alla riconosciuta necessità di una amministrazione internazionale su aree ove nessuno Stato può esercitare una propria giurisdizione (essendo l’attività mineraria svolta al di fuori delle 200 miglia nautiche della Zona Economica Esclusiva), non ha ancora disciplinato, sul piano operativo, alcuna effettiva attività di sfruttamento dei fondali marini; allo stato attuale, essa potrebbe concernere minerali posti ad una profondità di almeno 200 metri ed in particolare moduli polimetallici (l’opzione più conveniente economicamente), solfuri polimetallici e croste di ferromanganese ricche di cobalto.

La maggioranza delle proposte estrattive riguardano attualmente siti in prossimità di giacimenti di moduli polimetallici o bocche idrotermali  attive o estinte alla profondità di 1400 metri sotto la superficie oceanica, con significativi ostacoli di natura tecnologica ed ambientale. Tuttavia, per effetto dei progressi tecnologici in continua evoluzione, l’ISA nel 2021 ha stipulato contratti della durata di quindici anni per l’esplorazione finalizzata all’estrazione, con 22 contractors, che costituiscono un mix di enti governativi, società statali ed enti privati, che ben dimostrano i diversi interessi a livello mondiale in tale settore  nel prossimo futuro e che rappresentano un interessante banco di prova rispetto a quanto potrebbe accadere nello spazio.

E’ opportuno, altresì, precisare che la natura di “work in progress” in questa materia è dimostrata anche dal fatto che l’insieme delle disposizioni, regolamenti e norme procedurali che regoleranno la prospezione, l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse minerarie marine di tali aree (il c.d. Mining Code), il cui processo di elaborazione è iniziato nel 2014,  nel Luglio 2019 sono state oggetto della redazione delle Draft Regulations on Exploitation of Mineral Resources in the Area che dovranno essere prossimamente adottate dal Consiglio prima che qualsiasi contratto di sfruttamento minerario possa essere concluso.

Tali Draft Regulations sono ispirate dall’obiettivo di bilanciare stringenti procedure e vincoli di natura ambientale ed i profili economici con gli “equitable sharing criteria” che impongono la destinazione di una parte dei proventi all’ISA affinchè provveda a ripartirli.

Il pagamento di una royalty  (a cadenza biennale ai sensi degli artt. 64 e 67) all’ISA e l’attribuzione a tale ente di poteri di controllo e sanzionatori, costituiscono un modello che è stato suggerito possa essere utilizzato quale esempio per una legislazione per attività minerarie nello spazio.

L’argomento sarà oggetto più dettagliatamente di un altro contributo, ma per il momento si può affermare che il quadro regolamentare in materia nell’ambito del diritto del mare, pur in continua evoluzione, non è ancora stato sperimentato all’atto pratico e che, d’altra parte, un sistema normativo, pur imperfetto ma migliorabile anche alla luce del diverso quadro storico e tecnologico rispetto al passato (ora vi sono più di 25 Stati in grado di compiere voli spaziali umani ed oltre 120 nazioni che adoperano tecnologie nell’ambito dei satelliti), è una opzione migliore di un quadro normativo pressoché inesistente.

Il regime giuridico dell’Antartide

Un altro territorio che ha molto in comune con lo spazio è l’Antartide, sia per le ostili caratteristiche naturali, sia per il suo status giuridico, regolato dal Trattato di Washington dell’1.12.1959 che ha sancito il principio di libertà di ricerca scientifica, l’uso pacifico e di preservazione dell’ambiente naturale ed il divieto di attività militari, pur “congelando” le rivendicazioni territoriali di cui era stato oggetto.

L’aspetto in questa sede rilevante è che anche per l’Antartide era stata conclusa a Wellington nel  1988 una Convenzione per lo sfruttamento delle sue risorse (Convention on the Regulation of Antarctic  Mineral Resource Activities), dopo ben sette anni di negoziati e pur non essendovi un unanime consenso sulla sua sovranità.

Tale Convenzione prevedeva un regime articolato (ma non dettagliato sotto il profilo regolamentare) relativo alle attività minerarie; l’accordo, pur ispirato a principi di protezione dell’ambiente, con approccio pragmatico, stabiliva (in parziale analogia a quanto previsto nel Trattato sulla Luna e nella Convenzione di Montego Bay), il riconoscimento di fees da utilizzare per “scopi antartici”, con l’obbligo di destinare una quota dei proventi ai progetti degli Stati meno avanzati, un sistema risarcitorio sia per attività illegali che in relazione ad attività con impatto ambientale ed una equa ripartizione dei benefici derivanti da tali risorse, rappresentando, quindi, un esempio istruttivo nell’ambito della regolamentazione dello sfruttamento di risorse non soggette a sovranità nazionale, come nel caso dello spazio.

Vi è anche da dire che tale  Convenzione non è mai entrata in vigore, poiché nonostante i rigidi vincoli ambientali che aveva previsto, alcuni Stati si rifiutarono di ratificarla sostenendo che nessuna attività mineraria vi avrebbe dovuto essere consentita, tanto che solo tre anni dopo, il 4.10.1991, venne sottoscritto a Madrid il Protocol on Enviromental Protection to the Antarctic Treaty, che designò l’Antartide come riserva naturale e proibì qualsiasi attività mineraria, se non a fini di ricerca scientifica.

Il Protocollo, inoltre, bandisce lo sfruttamento di risorse minerarie antartiche, prevedendo che una sua revisione non potrà avvenire sino al 2048, a cinquant’anni dalla sua entrata in vigore.

Naturalmente, ciò che è avvenuto in Antartide, non esclude che si verifichi anche per lo spazio, anche se la lezione che se ne può trarre è che i processi legislativi in materia sono estremamente lunghi e che gli obiettivi possono cambiare nel tempo, tanto più che, anche per il notevole progresso tecnologico che si è verificato, è stato da molti studiosi affermato che l’attività mineraria lunare (o su altri corpi celesti come gli asteroidi) è potenzialmente più lucrativa dal punto di vista commerciale e la fase estrattiva potrebbe essere effettuata in forma più ecologica ed efficiente rispetto ai fondali marini.

Del resto, non è necessariamente vero che l’applicazione del principio di patrimonio comune dell’umanità coincida con la totale indisponibilità di quanto ne è oggetto; ad esempio, in molti sostengono, da una parte, che tra l’assoluta conservazione e l’uso indiscriminato, vi sono possibili posizioni intermedie, basate sull’assenza di logiche predatorie e sul rispetto rigido dell’ambiente; dall’altra, che tale definizione sarebbe in buona parte priva di significato se da questo patrimonio l’umanità non possa ricavarne alcun vantaggio.

CONCLUSIONI

Appaiono evidenti le analogie tra le problematiche che concernono i due ambienti naturali (spazio ed alto mare), che la Convenzione di Montego Bay ha affrontato e sostanzialmente risolto e non solo con riferimento alla delicata questione della gestione dei fondali marini che tale accordo ha saputo pragmaticamente modificare rispetto ad un approccio iniziale considerato dalla maggior parte degli Stati occidentali troppo “dirigista”.

Molti esperti hanno sostenuto che il diritto dello spazio si trovi nella medesima situazione in cui si trovava quello del mare, un secolo fà, quando tale settore era privo di una legislazione e, quindi, di alcun controllo.

L’attuale vuoto normativo costituisce, senza dubbio, non solo un rischio legato alla assenza di regolamentazione e giurisdizione in una materia così delicata ma, nel contempo, anche un freno agli investimenti degli stakeholders nazionali e privati; quanto già legiferato ed implementato in materia di diritto del mare, costituisce un prezioso ed utile precedente dal quale attingere per affrontare queste nuove sfide.

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Space-Law Avvocato Marco-Machetta Delimitazione spazio Cosmico
Avv. Marco Machetta

Avvocato esperto in diritto internazionale, diritto marittimo e commerciale. Ha collaborato con il Prof. Umberto Leanza, partecipando alle attività di studio e di ricerca della cattedra di diritto internazionale della Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, in particolare in materia di Diritto Internazionale del Mare, di regime giuridico dei satelliti e dell’orbita geostazionaria e sul regime giuridico dell’Antartide. Ha partecipato, in più occasioni, per conto del Ministero degli Affari Esteri, in qualità di esperto giuridico, ai lavori della Commissioni O.N.U. Uncitral (United Nations Commission on International Trade Law); è stato, altresì, membro della delegazione italiana ai lavori della Hague Conference on Private International Law.